Cinema Spettacoli 

Siccome che ci siamo divertiti

Di Anna Marchesini posso solo dire che trovo perfino giusto ridere anche oggi.
L’atroce affetto che ci lega ai comici: siccome che siamo tutti un po’ cecati, non si riesce a star seri su niente.
Se esiste un Dio dell’Ironia arriveranno schiere di cherubini a pettinare la cofana, suppongo.

marchesini

di Mauro Traverso*

Se non bastasse ricordarla come attrice e basta, senza per forza cercare incroci di carriera con il cinema, Anna Marchesini avrebbe diritto a stare in tutte le rubriche di cinema di questo mondo per essere stata la voce italiana di Judy Garland/Dorothy Gale nella versione restaurata del Mago di Oz, quella del 1980 (il film è del 1939). Non è la sua unica collaborazione con la Settima Arte ma questa è abbastanza, credetemi, fosse anche la sola.
Frequentava il doppiaggio spesso, in quegli anni e anche dopo: lo faceva d’estate, con il lavoro teatrale in pausa e, a sentire lei, si divertiva un sacco, tanto da risultare spesso indisciplinata sul lavoro ed essere messa ogni tanto fuori sala, per eccesso di risate. Non si fa fatica a crederle, anche se tutta quell’indisciplina era, naturalmente, soltanto d’umore e la professionista, invece, era serissima.
Le toccavano per lo più serie televisive, in maggioranza cartoni animati: c’è la sua voce dentro episodi di Lady Oscar, di Lupin III, di Hercules. Ma le sono toccati anche personaggi di Happy days, Star Trek, La casa nella prateria, Qui Los Angeles: squadra anticrimine. D’inverno recitava Moliere, Chechov e Aristofane, magari con le regia di Tino Buazzelli o Mario Scaccia. D’estate doppiava, parole sue, “ranocchie, insetti e principi tontoloni”. Sì, doppiava anche personaggi maschili. A proposito di una serie animata, sulla sua filmografia di doppiatrice, Wikipedia scrive, nella colonna del nome del personaggio doppiato, ‘nel ruolo dei personaggi cattivi’. E doppiò anche, come no, una telenovela messicana, fatalmente intitolata Il Maleficio, dando voce a un personaggio con il nome altrettanto fatale di Soledad ( che in italiano vuol dire Solitudine, per quei pochi che non lo sapessero ). E qui, davvero, a prendere sul serio le sue parole di prima, non si riescono neanche a immaginare le risate che si dev’esser fatta.
Tutta quella esperienza, viene fin troppo facile scriverlo ora, deve essere servita parecchio, alla sua carriera di attrice comica, quella che l’ha resa famosa con Lopez e Solenghi e poi anche quella solista, dopo lo scioglimento del Trio. C’era già dentro la ‘distanza’ dai personaggi, il guardarli sempre, almeno un po’, anche dal di fuori, per descriverli poi sul palco con la feroce esattezza dell’ironia. E c’era già dentro tutta la felice schizofrenia recitativa che riusciva a dar voce a tanti personaggi, a sbozzare mille caratteri diversi da un unico atteggiamento, mille impuntature diverse da un’unica nevrosi. Lei di suo ci metteva un di più di intenzionalmente drammatico, una consapevolezza del comico come territorio di confine con il tragico. Si dice che sia questa consapevolezza a rendere grandi i grandi comici ma non è sempre vero. I suoi stessi colleghi principe, Tullio Soleggi e Massimo Lopez, sono anch’essi attori ‘laureati’ (entrambi alla Scuola del Teatro Stabile di Genova, tra l’altro) e hanno entrambi una solida gavetta di classico teatro drammatico alle spalle, prima di formare la fortunatissima formazione comica del Trio. Eppure non hanno quel di più, non portano ‘da casa’ nei loro personaggi nient’altro che non siano le battute brillanti e tempi comici azzeccatissimi. I personaggi di Anna Marchesini, invece, erano tutti portatori sani di solitudine femminile. Pensate alla signorina Carlo, alla sessuologa, alla cameriera secca dei signori Montagner, all’attrice Rossana, alla cartomante: non sono tutte, forse, donne irrimediabilmente sole? La signorina Carlo, con la sua inconfondibile cofana, non era forse anche una formidabile silhouette, come Charlot, come Buster, come Laurel? Non era forse anche una felicissima figura cinematografica? Un’icona, come va di moda scrivere oggi? Sì, lo era. Con tutto quel ‘di più’ che non aveva paura del patetico, anzi, lo affrontava di pieno petto e lo rispettava, lo faceva risuonare insieme alle risate, ai tormentoni (“che siccome che sono cecata” ), alle parole difficili da pronunciare. E non è dato sapere se il cinema non se ne sia mai accorto o se non sia stata lei, invece, troppo a suo agio tra le tavole del palcoscenico, a negarsi alle proposte. Poco male, intendiamoci, ce la siamo goduta anche così e mancherà anche a noi cinefili conclamati, e non solo per tutto quello che poteva essere e non è stato.
Ci lega a lei lo stesso atroce affetto che ci lega ai grandi comici per davvero: quello per cui, appena sai che sono scomparsi, ti scappa da ridere anche lì, in punto di morte. Perché siccome che siamo tutti un po’ cecati, ormai non si riesce più a star seri su niente. Siamo troppo abituati a ridere per vivere. Abituati bene, da loro.

*Critico cinematografico

Mauro traverso cinema definitivo

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